ISLANDA 2023 : “QUESTA LA CHIAMI UGUAGLIANZA?” LO SCIOPERO GENTILE CHE ESIGE SUBITO RISPOSTE

Islanda 2023

ISLANDA 2023 : “QUESTA LA CHIAMI UGUAGLIANZA?” LO SCIOPERO GENTILE CHE ESIGE SUBITO RISPOSTE

di Maria Grazia Cavallo
6 Novembre 2023

“Se le donne abbassano le braccia, il mondo cade”

(Antico proverbio africano )

ISLANDA 2023 : “QUESTA LA CHIAMI UGUAGLIANZA?” LO SCIOPERO GENTILE CHE ESIGE SUBITO RISPOSTE
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L’eco si è già spenta. I riflettori pure. Inevitabile. Ma la questione sollevata dalla donne islandesi con il loro del 24 ottobre scorso ha una caratura planetaria. Il merito va ascritto alla loro combattività riportata in primo piano da un’iniziativa che anche in Italia ha ricevuto una discreta attenzione dai media, accompagnata da un’attenzione mista a curiosità. Quarant’otto anni dopo. E’ il tempo trascorso dal primo sciopero delle donne in Islanda. L’anno e il giorno vennero scelti per il loro significato simbolico: il 1975 era stato proclamato anno internazionale della donna dalle Nazioni Unite, organismo istituito proprio il 24 ottobre. Anche allora, nella loro quasi totalità, le donne islandesi si fermarono da ogni attività per ricordare al loro Paese, meno di 400 mila abitanti, la centralità della donna e dell’essere donna nella società.

Il 24 ottobre 2023 la protesta si è ripetuta e ha avuto in prima linea, una partecipazione dal grande valore simbolico, la premier islandese Katrín Jakobsdóttir (foto in basso) che ha esortato le sue ministre e tutte le donne a seguire il suo esempio. In Islanda il livello di occupazione femminile è dell’80% per cento e le donne sono maggioranza in settori come l’assistenza, l’istruzione, la sanità, oltre che nell’ambito del lavoro domestico e nel settore delle pulizie. Una protesta quindi per denunciare che dalle donne sono richiesti eguali doveri, cui non corrispondono pari diritti sul piano professionale e retributivo, mentre incombe sempre l’ombra e l’onta della violenza sessuale.

Uno straordinario successo. Nessun’altra parola potrebbe restituire meglio l’immagine diffusa nel mondo dell’incrociare di braccia in Islanda, uno sciopero preceduto da una domanda, tutt’altro che retorica: “questa la chiami uguaglianza?”. Un interrogativo diretto che esige una risposta politica concreta ed immediata, perché anche nel paese dell’uguaglianza di genere non è stato raggiunto l’obiettivo prefissato di azzerare ogni differenza salariale di genere entro il 2022. Come è stato trasparentemente ammesso dal governo. Anzi, va detto che, per il Global Gender Gap Index del 2023, nessun paese al mondo ha raggiunto l’assoluta parità di genere , tanto che il traguardo di questo percorso di profila lontano: fra 131 anni.

Ma le Islandesi sono esigenti e sanno che un solo giorno di sciopero gentile – che neppure hanno chiamato sciopero, ma “kvennafri”, cioè “giorno libero delle donne” – può portare risultati rivoluzionari e quasi immediati. Lo sanno per la loro storia.

Katrín Jakobsdóttir
Tuttavia le buone leggi – per essere efficacemente applicate nel concreto – richiedono risorse, formazione di operatori in numero adeguato ed altamente preparati. La delicatezza della materia – perché questa tipologia di reati tocca la carne viva delle persone, le emozioni, le relazioni più intime e quelle sociali , spesso con effetti dirompenti – esige approcci multidisciplinari per rispondere alle emergenze complesse ed alle varie facce della violenza di genere.
La storica giornata del 24 ottobre 1975

Negli anni Settanta, la condizione delle donne islandesi era ancora arretrata. La nazione, indipendente dal 1944 dalla Danimarca, non riusciva a concretizzare i modelli di welfare diffusi negli altri paesi nordici e la maggioranza delle donne non lavorava o era sottopagata. Tuttavia, l’antefatto di quel famoso evento va ricercato proprio all’inizio di quel decennio, nel 1970, quando alcune studentesse ed artiste, che avevano vissuto in Svezia e negli Stati Uniti, costituirono il primo collettivo femminista, che replicava nel nome anche le esperienze del movimento femminista radicale americano RedstckocKings.

Alla manifestazione del 1° Maggio, quelle donne scossero il mondo femminile islandese con un gesto fortemente simbolico. Installarono la grande statua di una donna nuda con una fascia trasversale che recava la scritta “Persona e non merce”, che rappresentava la ribellione di Lisìstrata, simbolo di ribellione nella cultura europea. Quelle femministe ritenevano che le rivendicazioni delle donne – che allora percepivano il 75% in meno degli uomini – andassero portate avanti con gli stessi strumenti della lotta di classe. E questo pensiero cominciò a diffondersi e a fermentare nella coscienza delle donne

Vigdís Finnbogadóttir prima donna Capo di Stato al mondo eletta democraticamente

Pensavano che le donne avrebbero potuto scioperare contro lo sfruttamento maschilista come gli operai lottavano contro i padroni. Progressivamente, questo pensiero radicale venne reso più moderato e condivisibile da un numero più ampio di donne, fino a diffondersi capillarmente nel mondo femminile. Così il 24 ottobre 1975 le islandesi indissero una giornata di protesta forte, ma al contempo “gentile”. Evitando la parola “sciopero”(verkfalt) proclamarono un giorno di libertà delle donne da ogni impegno.

Si astennero da ogni lavoro esterno e domestico, e seguirono l’esempio di Lisistrata anche nel privato. Di conseguenza vennero chiuse le scuole, si fermò ogni attività ove erano impegnate donne; gli uomini furono costretti a portare i figli al lavoro, a provvedere alla loro nutrizione – poiché abitualmente non cucinavano – e affollarono i pochi ristoranti aperti ed i supermercati. Per dirla soltanto in una parola, la società andò in tilt . Poi, allo scadere della mezzanotte e come d’incanto, tutto tornò alla normalità. Ma l’effetto fu dirompente, come avevano previsto.

Quel giorno di astensione – in cui le donne avevano sfilato in corteo, ballato, cantato, discusso, concentrate soltanto su se stesse – avrebbe cambiato per sempre la considerazione verso il mondo femminile nella politica e nella società islandese. Lo sciopero “gentile” fece infatti comprendere che il lavoro delle donne non deve esser mai sottovalutato o sottopagato. Accelerò stagioni di immediate riforme femministe, tanto che nel 1980, a cinque anni dal sorprendente, innovativo e decisivo sciopero femminista di un solo giorno, ma che ebbe effetti rivoluzionari, Vigdís Finnbogadóttir (foto a lato) divenne la prima Presidente della repubblica islandese, prima donna Capo di Stato al mondo eletta democraticamente (rieletta poi altre tre volte) che nel 2015 dichiarò alla BBC che senza quello sciopero non sarebbe mai arrivata alla massima carica, soprattutto essendo ragazza madre.

Vigdís Finnbogadóttir
La politica verso le persone LGBTQ+

Inoltre è stata proprio una islandese la prima premier dichiaratamente omosessuale, Johanna Siguroadòttir, (foto in basso) che aveva articolato una politica inclusiva ed antidiscriminatoria a favore delle persone LGBTQ+ dal 2009 al 2013. Fino ad oggi tale impegno non è mai stato interrotto: infatti, proprio in questi giorni il governo islandese si sta occupando di sovvenzionare artiste ed artiste queer (attraverso il progetto HeforShe) e sta organizzando una campagna di sensibilizzazione sull’endometriosi, malattia femminile piuttosto seria e difficile da diagnosticare.

Johanna Siguroadòttir

Fin dal 2017, in Islanda è obbligatorio il rispetto delle quote di genere nei vertici delle aziende private e delle istituzioni pubbliche. Inoltre, grazie all’attivismo delle donne, le aziende con più di venticinque dipendenti sono obbligate, a pena di sanzione, a certificare l’equità salariale di genere che attesti il pari trattamento di genere a parità di lavoro.

Nel Parlamento del 2021 sono state elette moltissime donne, senza che ciò sia stato determinato da obbligo di “quote rosa”, ma come scelta spontanea degli elettori: segno che la mentalità paritaria di genere è ormai consolidata. In Islanda è da tempo illegale la prostituzione, perché non è culturalmente accettabile che esseri umani siano in vendita e, fin dal 2010, sono stati banditi anche gli stripclub. Da tempo è anche in corso una riflessione sul rapporto fra pornografia e violenza sessuale e sulla diffusione della pornografia fra i minorenni : il che dimostra una sensibilità politica apprezzabile, e non ancora abbastanza diffusa altrove, verso queste problematiche.

Non stupisce dunque che l’Islanda continui a mantenere il primo posto – ininterrottamente da quattordici anni quale nazione più rispettosa della parità di genere nelle valutazioni e nelle classifiche del World Economic Forum, che prende in considerazione fattori come la natalità, i dati occupazionali con riferimento all’equilibrio di genere, il benessere ed il buon funzionamento complessivo della società. Piuttosto ci stupisce assai che, nell’evoluta Islanda, le donne e le persone non binarie abbiano scelto di “incrociare le braccia” e fermarsi, per tutta la giornata del 24 ottobre, contro lo squilibrio salariale di genere e contro la violenza sulle donne.

Una disparità salariale del 21 per cento

Eppure oggi le donne d’Islanda – anche loro, chi l’avrebbe detto? – lamentano insospettabili difficoltà ad ottenere il dovuto e giusto rispetto dell’equilibrio di genere con gli uomini: sia nelle retribuzioni, sia nelle interrelazioni personali e sociali. Effettivamente, in quel “paradiso delle donne” quale l’Islanda sembra essere ed è – soprattutto se vista dalle nostre latitudini sudeuropee – permane il 21% del divario retributivo a parità di lavoro fra uomini e donne. A favore dei primi, of course.

Per le donne questo svantaggio economico comporta conseguenze penalizzanti perché si traduce in limiti per il loro benessere economico e per la loro evoluzione sociale. Ma può anche condizionarne le scelte di affrancamento da situazioni di violenza familiare, quando soltanto l’allontanamento e la ricostruzione di una vita diversa altrove potrebbero interrompere relazioni violente e sopraffazioni. E’ perciò significativo che lo sciopero sia stato proclamato anche contro la violenza di genere, agìta contro il 40 per cento delle islandesi.

La relazione fra situazione economica e possibilità di sfuggire alla violenza domestica, in qualsiasi forma attuata (fisica o psicologica, diretta o assistita) è talmente evidente da non dover essere più spiegata. E’ chiara da tempo la forte interdipendenza fra tutte le problematiche di genere, che pertanto debbono essere affrontate complessivamente, ragionando sulla cultura, sull’educazione, sul diritto antidiscriminatorio, sull’istruzione, sulle religioni, sulle tradizioni, sull’economia, sul disagio sociale e su quello psicologico, sull’antropologia… Insomma: attraverso tutto il prisma delle discipline scientifiche e delle scienze umane. Proprio per questo, allo sciopero hanno aderito anche le persone non binarie.

Drifa Snaedal

Sconcerta apprendere che, nella civilissima e progressista Islanda, una donna su tre dichiari di aver subìto o di subire violenza. Drifa Snaedal (foto a lato), portavoce del movimento Stìgamot, che si occupa di contrasto alla violenza attraverso l’educazione, ha sottolineato al quotidiano britannico The Guardian che il lavoro sottopagato o sottovalutato delle donne e la violenza di genere costituiscono “le due facce della stessa medaglia”.

Da tempo è noto il cosiddetto “paradosso nordico”: nei paesi del nord Europa, nonostante le legislazioni sulla parità di genere di genere molto avanzate, aumenta la violenza agìta sulle donne. Questo fenomeno viene letto anche come inconscia e vendicativa reazione del “patriarcato” alle progressive conquiste delle donne. Esistono studi dell’Università spagnola di Valencia e dell’Università di Lund in Svezia, che traggono queste conclusioni.

L'insegnamento che arriva da Reykjavík

Lo sciopero del 24 ottobre 2023 è stato molto partecipato, anzi ha superato le più ottimistiche aspettative. Ha richiesto misure “urgenti” contro le “forti” disparità di genere contro le donne. Proprio con queste aggettivazioni si è espressa l’organizzatrice dell’evento Freyja Steingrímsdóttir. Fra le misure richieste, quella della pubblicazione delle retribuzioni di uomini e donne in tutti gli ambiti e a tutti i livelli affinché, attraverso la trasparenza, si possa arrivare alla completa parità economica per compensare attività uguali.

Per ventiquattro ore il 24 ottobre – data simbolica, come più avanti vedremo – le donne islandesi si sono astenute da qualsiasi attività lavorativa esterna, dai lavori domestici, dagli abituali impegni di accudimento dei figli e degli anziani ( affidati ovviamente a mani sicure).

Ha creato difficoltà di funzionamento – previste e deliberatamente volute – in tutti i settori della società :riducendo il traffico nelle strade, ma anche fermando i mezzi pubblici guidati dalle donne; svuotando le aule scolastiche – ove la maggioranza dei docenti sono donne – fermando il lavoro degli ospedali se non per le urgenze, rallentando l’attività di fabbriche, negozi, cinema, teatri, mense aziendali, ristoranti, centri commerciali, biblioteche e istituti vari: tutti privati della presenza femminile.

Reykjavik
La saggezza del proverbio africano

Nel giorno delle ventiquattrore esatte di libertà, le donne hanno fermato anche gli orologi delle loro fatiche, si sono dedicate alle più varie attività ludiche, riunendosi, passeggiando, concentrandosi essenzialmente su se stesse. Hanno dimostrato anche visivamente – con l’efficacia delle immagini che fanno sbiadire le parole – quanto sia importante, fondamentale e addirittura decisiva la presenza femminile nel mondo del lavoro.

Anche nel 2023 , parafrasando l’antico proverbio africano, se le donne si fermano, si ferma il mondo. E lo si vede. La saggezza del proverbio e la sua verità stanno nella Storia e sono ancora sotto i nostri occhi. Per quanto antiche, sentiamo giuste queste parole: ci rimandano alle tradizioni delle nostre famiglie, alle narrazioni degli anziani che, a loro volta, raccontavano le vite dei propri vecchi. Per secoli è andata così e le donne hanno sempre fatto, ampiamente, la loro parte nel “reggere il mondo” sulle braccia. Partorendo figli, “portando avanti le famiglie” (come si usava dire), lavorando fuori e dentro casa e adattandosi a tutto. Anche, ad esempio, a diventare operaie per tenere aperte le fabbriche durante le guerre, salvo esser poi “rimesse al loro posto” davanti ai focolari, quando gli uomini tornavano dal fronte.

Una stanchezza atavica

Quella delle donne è anche una storia di eccesso di fatica: del trascurare se stesse anteponendo la cura degli altri, allevando figli, diventando poi madri dei propri vecchi, vestendo morti. Ma contando sempre poco, godendo di pochi diritti, spesso senza neppure la consapevolezza di poterli pretendere.

Perché? Perché nel corso dei secoli le donne hanno progressivamente introiettato come naturale, e forse persino giusta, la loro sottomissione fisica e psicologica attraverso i modi in cui è sempre stata prodotta e indotta dalla società. Cioè: generalmente dando per scontata, e da assecondare, la condizione limitante disposta per loro dalla natura, dalle funzioni biologiche a cui erano si sentivano (o erano indotte a sentirsi) chiamate e dalle proprie caratteristiche primarie, a cui erano destinate. Ma anche, e purtroppo, si son dovute rassegnare alle diffuse e multiformi manifestazioni della violenza – insopportabili al solo pensiero – imposte dalla supremazia maschile alla loro fragilità fisica.

L’asimmetria di potere e gli storici svantaggi sociali

Attraverso i secoli, l’asimmetria di forze e dunque di potere – inteso non soltanto come espressione del ruolo dominante, ma anche nell’accezione di potenzialità e possibilità concreta di fare – ha sempre più accentuato gli svantaggi sociali delle donne.

Nel tempo, le società hanno strutturato, consolidato ed alimentato sistemi politico – culturali molto diversi, ma tutti capaci, per così dire, di “intrappolare in gabbie mentali” le possibilità di emancipazione delle donne. Sia attraverso leggi, tradizioni e narrazioni, sia attraverso la “normalizzazione” della violenza nei rapporti fra i generi, sia ricorrendo a qualsiasi strumento che fosse comunque funzionale al mantenimento di tale asimmetria.

Tanto efficace è sempre stata la pervasività di ogni cultura discriminatoria nelle menti, nelle abitudini, nel sentimento dei popoli, da essere anche difficilmente individuabile nello stato concreto delle cose, nei tanti impedimenti – sempre imposti dalla realtà quotidiana – all’affermazione sociale delle donne.

Quantomeno fino al nostro “passato prossimo” che, convenzionalmente, potremmo far risalire a tutto l’arco del secolo scorso. Quando, nelle società occidentali, la consapevolezza dei diritti di genere e la sensibilità verso le giuste aspettative di progresso sociale delle donne cominciò a diffondersi lentamente, progressivamente e capillarmente nella società.

Il patriarcato quale male sociale e l’obiettivo della “democrazia di genere”

Il pensiero femminista, nelle sue variegate sfumature, da elitario cominciò a trovar sempre più sèguito, – lentamente ma progressivamente, fra avanzamenti e riflussi – in tutti gli strati della società; a diventare popolare soprattutto presso le donne. Cominciò a condensarsi in movimenti femministi dei più vari orientamenti politici, anche profondamente diversi fra loro, ma tutti impegnati per rivoluzionare la condizione delle donne attraverso gesti fortemente simbolici e, soprattutto, traducendo l’energia della ribellione in azione concreta.

Ci è voluto il lungo percorso d’impegno femminista per cominciare a vedere, decifrare e analizzare quale fosse “il problema originario, il padre di tutti i problemi” potremmo dire. Ed è stato un difficile, accidentato, percorso di riflessione. Forse perché era troppo vicino agli occhi di tutte per essere “visto”; così profondamente innervato nelle radici della nostra cultura da non essere immediatamente e lucidamente individuabile.

Finché, però, è stato colto, compreso e finalmente “denominato”. Sappiamo infatti che le cose non sembrano esistere finché non viene dato loro un nome. Stiamo parlando del patriarcato e di tutte le sfumature in cui si è sempre espresso e concretizzato nella Storia. Se dovessimo fare una distinzione netta, manichea, fra il bene ed il male, ebbene: si tratta di un male culturale e sociale. Un fenomeno che reprime le possibilità di evoluzione delle donne, ma che – attraverso tale “mortificazione di genere” compromette e rallenta lo sviluppo di intere società, del mondo intero.

Sradicare il patriarcato

Male dannoso per tutti: sarà difficile eradicarlo definitivamente e dovunque. Tuttavia è questo l’impegno irrinunciabile per arrivare alla “democrazia di genere” in tutto il mondo. Si tratta dell’obiettivo storico da perseguire, un regalo da lasciare alle prossime generazioni.

Ma siamo nel 2023 e le donne hanno saputo percorrere tanta strada – comunque sempre in salita e contando fondamentalmente sulle proprie forze – per far sì che la parità di genere possa diventare fondamento imprescindibile, neppur minimamente contrattabile, di ogni democrazia.

Negli ultimi anni, e specialmente nel mondo occidentale, le donne hanno conquistato ruoli apicali in moltissimi campi, anche in quelli tradizionalmente impegnati dagli uomini, dimostrando competenze ed eccellenza oltre le migliori aspettative. Grazie alle donne, quel “passato prossimo” di svantaggio e di limitazione sociale sta diventando “passato remoto”: come se le loro conquiste stesseroaccelerando lo scorrere del tempo psicologico rispetto a quello cronologico in certe parti del mondo.

Oggi in Italia

Nonostante le buone leggi la società italiana è in pieno riflusso. Troppo lungo e doloroso far la lista degli esempi – a partire dalla tassa rosa a carico delle donne – quando invece sarebbe il caso di seguire quanto Ichino e il compianto Alesina raccomandavano fin dal 2009: ”la tassazione differenziata del reddito va al cuore del problema”, sottolineando quanto la “riduzione delle imposte sul lavoro femminile” potrebbe favorire l’occupazione delle donne, cambiare l’organizzazione delle famiglie, favorire l’equilibrio di genere nella coppia e aumentare complessivamente il benessere sociale. Del resto, come spiega il Premio Nobel 2023 Claudia Goldin: “Non avremo mai l’uguaglianza di genere finché non avremo anche l’equità di coppia”. Certo alle donne italiane occorrerebbe anche altro…

Che cosa aspettiamo allora a prenderci il nostro “giorno di libertà”?

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Articolo pubblicato su La porta di vetro.