Per quanto sempre perfettibili, abbiamo buone leggi, coerenti con le direttive sovranazionali ed ispirate ai principi vincolanti dettati dalla Convenzione di Istanbul del 2011. La quale impone, agli Stati aderenti (ma proprio la Turchia, ove l’atto venne firmato, ha ritirato l’ adesione da alcuni anni )
Tuttavia le buone leggi – per essere efficacemente applicate nel concreto – richiedono risorse, formazione di operatori in numero adeguato ed altamente preparati. La delicatezza della materia – perché questa tipologia di reati tocca la carne viva delle persone, le emozioni, le relazioni più intime e quelle sociali , spesso con effetti dirompenti – esige approcci multidisciplinari per rispondere alle emergenze complesse ed alle varie facce della violenza di genere.
Richiede la gestione di problematiche sanitarie, psicologiche, giuridiche, di tutela delle cosiddette “vittime vulnerabili” e dei soggetti fragili (ad esempio: i minori coinvolti direttamente o indirettamente nelle vicende penali) e attività di prevenzione di ulteriori violenze. Un arcipelago di competenze, di professionisti esperti e capaci d’intervenire con discrezione, delicatezza e tempestività in segmenti diversi. Questi vanno dall’arrivo della donna al pronto soccorso al suo primo colloquio con l’operatore sanitario, alla raccolta di informazioni presso la vittima, per la presa in carico clinica da parte dei sanitari. In questi momenti potrebbe manifestarsi l’eventuale scelta della parte offesa di denunciare; scelta sempre molto sofferta, anche quando si prospetti come l’ultima opzione possibile. L’intervento degli inquirenti comporterà l’audizione della denunciante sulla dinamica dei fatti, la raccolta di elementi di prova e l’eventuale audizione della donna attraverso l’incidente probatorio, davanti a un giudice e con modalità particolarmente protettive della sofferenza della persona, nel rispetto delle regole procedimentali.
Lungo questo percorso, le esigenze dell’accoglienza delle vittime, dell’attenzione alla sofferenza (il to care) devono raccordarsi con le urgenze cliniche (il to cure), ma non interferire con quelle investigative, quando gli inquirenti debbono cominciare a svolgere i primi, urgenti accertamenti per la ricostruzione dei fatti denunciati.
E’ infatti sempre fondamentale e protettivo far “uscire” la parte offesa, quanto prima possibile, da quel “circuito giudiziario” che può essere, esso stesso, ansiogeno e vittimizzante. Perciò occorrerà generalmente “cristallizzare” la narrazione della vittima – anche per “blindarne” il contenuto rispetto a tentativi di intimidazione finalizzati a distorcerne o ad inquinarne il senso, e per rendere inutili eventuali minacce. Successivamente si potrà “sganciare” – per quanto possibile – la vittima dal processo, per dare spazio e tempo alle terapie psicologiche. I consulenti tecnici lasceranno il posto ai clinici , perché le violenze creano danni psichici che potrebbero perdurare per anni.
La gestione di tutti questi segmenti deve essere effettuata con scrupolosa accuratezza e con alta professionalità, per evitare anche involontari condizionamenti della denunciante o rischi di inquinamenti nella raccolta di elementi utili all’inchiesta. Proprio per questo richiede anche esperienza specifica e sensibilità in tutti gli operatori.
Molto spesso sono “i silenzi eloquenti” delle donne, le loro reticenze nel raccontare, le descrizioni maldestre di incidenti domestici mai avvenuti – stentate, imbarazzate e non convincenti – ad allarmare. Oppure, altro esempio, la inquietante presenza di un accompagnatore che simula atteggiamenti tutelanti, ma che mira con evidenza a controllare la narrazione della donna, a condizionarla. Oppure il timore che la donna sembra dimostrare al momento delle dimissioni dall’ospedale.
Questi esempi sono alcuni fra gli “indicatori di sospetto” che potrebbero esser colti da operatori sanitari esperti, fin dal primo colloquio con la paziente attraverso una accoglienza empatica, ma non invadente; aperta all’ascolto di quanto essenziale ed al contempo allertata da una solida esperienza di queste situazioni.
Il che può aprire la strada alla scelta di querelare da parte della vittima o all’intervento d’ufficio della autorità giudiziaria. Può aprire – come si dice – una “finestra d’opportunità” ad un percorso di affrancamento della donna dalla propria condizione vittimizzante.
Saranno poi gli inquirenti a gestire, con tutte le cautele previste dalla legge e sulla base delle regole della procedura penale ,l’audizione della vittima a fini investigativi..
Denunciare è un atto di coraggio, un’alzata di testa che la vittima riesce a compiere soltanto se riesce a superare il timore di ulteriori violenze o di ritorsioni nei confronti di persone a lei care, ad esempio i suoi figli. Ella sa anche che si esporrà al rischio di non essere creduta dagli inquirenti o dai giudici, di essere contraddetta decisamente dal proprio aguzzino, solitamente attraverso il costrutto di una falsa versione opposta e il trito e sbagliato refrain “la mia parola contro la sua”. Teme la minimizzazione delle sue sofferenze nella percezione dei giudici; la riduzione delle aggressioni subìte a banali liti familiari; la violenza agìta dall’aguzzino a semplice, ordinario conflitto.
Anche se la violenza di genere non può essere ridotta a conflittualità reciproca, non fosse altro che per la straordinaria sproporzione di forza fra uomo e donna. Chi denuncia sa, attraverso la cronaca mediatica, che molteplici situazioni similari – tantopiù in mancanza di altri testimoni (solitamente assenti nella dinamica di queste violenze, spesso agìte alla sola presenza di chi le subisce) – vengono archiviate o si concludono con l’assoluzione dell’imputato. Come se la parola della vittima non fosse abbastanza credibile, anche se soltanto all’accusato è lecito mentire nel difendersi. Ma raccogliere le forze ed esporsi denunciando è anche un fondamentale atto di fiducia nei confronti delle istituzioni. Che non devono mancare nel rispondere.
Reagiamo col disincanto dell’impotenza all’ipotesi che la prossima riforma di legge – sia pur necessaria – possa far cambiare le cose. Le leggi, finché restano scritte sulla carta, non bastano e non risolvono. Del resto, è proprio l’esperienza di questi anni di buone riforme e di donne che continuano a morire per mano di uomini – soprattutto attraverso la violenza di genere statisticamente più diffusa: quella cosiddetta “di prossimità”, teoricamente prevedibile e meglio fronteggiabile dalle Istituzioni – a provocarci questo disincantato scetticismo.
Sono le giustificazioni imbarazzate ed , ancor di più, “il non detto” di chi forse avrebbe potuto meglio valutare e prevenire i rischi per evitare – almeno in alcuni casi – la morte di donne che avevano trovato il coraggio di denunciare, a confermarcelo.
Era il 20 agosto del 2021 quando ricordavamo l’assurda morte di Vanezza Zappalà, uccisa dal suo persecutore sul lungomare di Aci Trezza.[2] La giovane aveva denunciato coraggiosamente e tempestivamente l’uomo violento, forse troppo presto beneficiato dagli arresti domiciliari, poi forse troppo rapidamente sostituiti da un semplice divieto di avvicinamento, senza neppure l’imposizione del braccialetto elettronico.
Lei, ad esempio, ma non lei soltanto: una per tutte fra chi aveva riposto coraggiosa fiducia nello Stato. Perché situazioni analoghe continuano a ripetersi. Altrettanto ci sconforta l’inadeguatezza di una politica di contrasto alla violenza di genere che – nonostante l’impegno trasversale degli attivisti e delle donne in particolare – arriva sempre in ritardo.
Fra le principali cause di morte e di invalidità delle donne nel mondo, la violenza di genere è stata definita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come ed ha storicamente impedito “la piena emancipazione delle donne”. Per questo è doveroso non farci illusioni: anche le leggi più illuminate e progressiste non sono sufficienti per infrangere quella struttura di dominio che continua a perpetuare la disuguaglianza fra uomini e donne.
“La carne è carne” dice infatti, autogiustificandosi ed autoassolvendosi, uno dei sette stupratori della giovane ragazza di Palermo. Istinto predatorio, certo, ma istinto: cioè qualcosa che sta nella natura, il gesto che viene prima del pensiero, di cui, anzi, non avverte alcuna necessità. Argomento delicato di una orrida vicenda che riprenderemo in un prossimo articolo.