ANCORA SUL “41 bis” E SUL TRATTAMENTO RITENUTO DISUMANO

Carcere duro 41 bis

41 bis carcere duro

di Maria Grazia Cavallo
8 Febbraio 2023
Quali limitazioni al detenuto, nell’applicazione concreta del 41bis, sono inutili ai fini di non consentire il proseguimento dell’attività di indirizzo criminale da parte del detenuto? Ciò non emerge dall’articolo di Maria Grazia Cavallo [1]. All’opposto, sarebbe utile ragionarne, altrimenti si fanno discorsi astratti e assolutamente condivisibili sulla detenzione che deve prevedere anche rieducazione.

41 bis carcere duro

Condividi su Facebook
Condividi su Linkedin

Dalla domanda di un lettore de La Porta di Vetro, provo a trarre alcune considerazioni per favorire la riflessione su un tema estremamente divisivo, secondo, sono costretta ad osservare, un costume molto italiano. Premesso ciò, convengo sul fatto che alcune restrizioni applicate ai detenuti sottoposti a regime di detenzione “41 bis” appaiono non funzionali al raggiungimento della finalità della norma. In effetti, si ha l’impressione che non vi sia alcuna ragione per imporle, se non quella di creare una sofferenza aggiuntiva alla sanzione comminata, che peraltro viene scontata in condizioni di isolamento.

Se non sono assolutamente necessarie, esse costituiscono una sofferenza aggiuntiva, un aggravamento qualitativo della pena, inaccettabile eticamente. La Costituzione vieta, non a caso, trattamenti contrari al senso di umanità. Altrimenti si potrebbe ipotizzare che il quid pluris di aggravamento sia finalizzato a, per così dire, destrutturare la resistenza psichica del soggetto, a condizionarlo (deliberatamente) a collaborare. Certo è possibile che il detenuto sia indotto a collaborare per sottrarsi a condizioni per lui estenuanti; ma condizioni afflittive non necessarie, irrilevanti allo scopo, non possono essere imposte dallo Stato allo scopo di determinare il risultato della collaborazione del soggetto.

La vigilanza attiva, perdura continuamente notte e giorno. Si ritiene che potrebbe diventare discontinua, almeno durante le ore di sonno del detenuto. Ciò per non tenere continuamente allertata la tensione del soggetto, che si sentirebbe psicologicamente sempre sotto tensione. Si tenga conto che le celle sono personali, spoglie, con tavolo e sedia fissati per non essere spostabili, prive di oggetti che possano ledere o essere usate per autolesionismo, prive di strumenti di comunicazione con l’esterno. Si ritiene che – alla luce di queste cautele – i controlli notturni potrebbero essere diradati e dunque resi meno afflittivi. Ad esempio: potrebbero essere effettuati soltanto in alcuni momenti della notte, eventualmente in orari diversi di volta in volta. Questa discontinuità non comprometterebbe affatto la finalità della norma, che è quella di impedire contatti con la criminalità all’esterno.

Perché soltanto un colloquio al mese con la famiglia ? Privare i familiari, e soprattutto i figli minori, dei contatti affettivi è una sofferenza aggiuntiva per il detenuto, oltre che essere una sofferenza immeritata per i familiari, soprattutto se bambini. Certo il rischio di contatti con la criminalità all’esterno non dipende dalla quantità dei colloqui coi familiari, se i colloqui sono scrupolosamente controllati. Essi avvengono in condizione di sicurezza assoluta, dopo perquisizioni e controlli attentissimi. I tempi sono scanditi, i dialoghi sono ascoltati e registrati, i contatti fisici evitati da vetri divisori a tutt’altezza. Non sono consentiti neppure toccamenti, né minimi momenti di riservatezza e intimità. Il detenuto può toccare e abbracciare i figli di età inferiore ai 12anni. Se il figlio ha un’età anche di poco superiore, valgono le regole più afflittive.

Che differenza può fare l’età del minore che incontra il padre o il nonno? Perché si limita la frequenza dei contatti con i familiari, considerando che gli affetti sono essi stessi strumento di risocializzazione per il detenuto? Osserviamo insieme quali sono le disposizioni previste dall’amministrazione penitenziaria:

– due sole ore “d’aria” al giorno, e con un massimo di altri 3 detenuti, reclusi con il medesimo regime;

– la possibilità di tenere solo fino ad un massimo di tre libri in cella, i quali devono peraltro essere stati reperiti all’interno del carcere o preventivamente autorizzati. Una volta che la lettura sia stato approvata ci si chiede perché il detenuto non possa tenere in cella contemporaneamente un numero superiore di libri;

– il divieto di tenere o leggere riviste;

– la possibilità di effettuare soltanto una chiamata della durata di 10 minuti al mese, e registrata, ma solo se in quell’arco temporale il detenuto non ha usufruito del colloquio con la famiglia;

– prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 186 del 2018 i detenuti non potevano nemmeno cucinare cibi in carcere, potendo utilizzare il fornello personale solo per riscaldare cibi precotti, ma questa assurda limitazione è stata dai Giudici ritenuta contraria al senso di umanità, causando una disparità di trattamento rispetto ai detenuti comuni.

Si aggiungono inoltre limitazioni ulteriori che possono essere specificatamente previste dai singoli Istituti penitenziari; ad esempio all’Aquila non sono ammessi abiti che presentino tessuti trapuntati, oltre alla stranezza dì fotografie detenibili in un certo numero, delle quali soltanto una appendibile… E allora , con quale criterio e soprattutto per quale ragione il detenuto deve scegliere chi guardare fra i propri cari?

Note

[1] Maria Grazia Cavallo, Caso Cospito: il 41 bis è legge in astratto, ma la sua applicazione dev’essere concreta in https://www.laportadivetro.com/post/casocospito-il41bisèleggeinastratto-malasuaapplicazionedev-essereconcreta

Articolo pubblicato su La porta di vetro.